Whistleblower, la giusta causa non può celare il licenziamento ritorsivo

29 Maggio 2024

Una delle caratteristiche principali della normativa sul whistleblowing, recentemente modificata e rafforzata dal Dlgs 24/2023, è la protezione del segnalatore.

In pratica, si vuole incoraggiare i dipendenti, i fornitori, i clienti e i collaboratori dell’impresa a segnalare possibili atti illeciti, sia a danno sia a favore dell’impresa, senza che chi segnala debba temere ritorsioni, a meno che non abbia agito senza “fondato motivo” di ritenere le informazioni veritiere e rientranti nel perimetro della disciplina.

A supporto del divieto di ritorsione, l’articolo 17 del Dlgs 24 fornisce un elenco non esaustivo ma dettagliato delle misure che possono essere considerate illegittime.

Tra queste, rientrano il licenziamento, la sospensione, la retrocessione di grado, la mancata promozione, la riduzione dello stipendio, il cambiamento del luogo di lavoro, l’adozione di misure disciplinari, le note di merito negative, così come comportamenti più sostanziali come la coercizione, l’intimidazione, le molestie, l’ostracismo, il “trattamento sfavorevole” (espressione onnicomprensiva) e i danni reputazionali sui social media o il mancato rinnovo di un contratto.

Ovviamente, tale protezione non deve diventare una scorciatoia per chi subisce misure negative per altri motivi, che potrebbe addurre motivazioni ritorsive per dichiarare l’atto illecito, quando invece è dovuto, ad esempio, a negligenza o a necessità oggettive della società.

Particolarmente interessante è la sentenza della Corte di Cassazione 12688 del 9 maggio scorso, che ha deciso un caso in cui l’ex CFO di un’azienda municipalizzata è stato licenziato per giusta causa. Il ricorrente ha contestato il licenziamento sostenendo che fosse una vendetta per la sua attività di whistleblower.

I giudici di primo grado e d’appello avevano accolto le difese della società, che affermava di aver interrotto il rapporto di fiducia con il dirigente, licenziato in tronco per non aver contestato un avviso di accertamento di 4 milioni di euro notificato all’azienda. Il ricorrente, invece, sosteneva la natura ritorsiva del provvedimento a causa delle sue precedenti denunce «all’Anac e alla Procura della Corte dei conti riguardo presunte irregolarità ai vertici aziendali», asserendo che i giudici di merito non avevano adeguatamente considerato questa circostanza.

I giudici della Suprema Corte hanno analizzato dettagliatamente i fatti che hanno portato alla risoluzione del rapporto di lavoro, concludendo che dalle deleghe conferite al dirigente non emergeva chiaramente che egli dovesse agire nel senso preteso dall’azienda speciale, né specificava i poteri da esercitare e con quali modalità e tempi.

Inoltre, il licenziamento seguiva una serie di atti di ridimensionamento del dirigente, sempre causati dalla sua attività di segnalazione.

La Corte sottolinea, come in recenti pronunce (Cassazione 6838/2023; Cassazione 26395/2022), che per accertare la nullità di un licenziamento ritorsivo è necessario verificare che «l’intento di vendetta sia stato l’unico motivo determinante nella volontà di risolvere il rapporto di lavoro», anche rispetto ad altri fatti che costituiscano giusta causa o giustificato motivo, senza poter confrontare le “diverse ragioni causative del recesso”.

In sintesi, se esiste una giusta causa, non ha senso lamentarsi di un fine ritorsivo. Tuttavia, nella sentenza in questione, i giudici della Cassazione hanno concluso che tale giusta causa non esisteva.

La lezione da trarre è chiara: la giurisprudenza potrebbe adottare un’analisi molto dettagliata e scrupolosa dei motivi dietro qualsiasi provvedimento che possa essere considerato ritorsivo (anche un semplice cambio di mansioni) nei confronti di chi ha segnalato presunti illeciti ai sensi della normativa sul whistleblowing.

Imprenditori e direzioni del personale farebbero bene a prenderne nota.

FONTE: Il Sole 24ORE

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